In materia locativa di immobili urbani, i diritti di prelazione e di riscatto (di cui agli artt. 38 e 39 l. n. 392/1978) spettano solamente se l’attività commerciale svolta avviene a stretto contratto con il pubblico e i consumatori. Tale circostanza costituisce imprescindibile presupposto processuale per l’ammissibilità delle corrispondenti azioni. Lo afferma la Cassazione nella sentenza 9583/12.
Non più «ufficio commerciale». Una s.p.a. di costruzioni, conduttrice di un fondo di proprietà del Fondo pensioni del personale della Banca Nazionale del lavoro, agiva in giudizio innanzi al Tribunale di Napoli domandando il riscatto dell’immobile, alienato dalla parte locatrice a due persone. Tanto il giudice di prime cure, quanto il secondo rigettavano la domanda: il contratto di locazione non prevedeva lo svolgimento nell’immobile di attività commerciali comportanti diretto contatto col pubblico. Se infatti le prime pattuizioni contemplavano la destinazione ad uso di ufficio commerciale, gli ultimi due rinnovi prevedevano solo la locazione per «uso ufficio» con chiaro carattere novativo.
Come interpretare l’espressione? La società ricorre per cassazione deducendo che nell’ambito della lettura ermeneutica contrattuale l’espressione «uso ufficio» non può da sola ritenersi idonea a escludere l’esercizio nell’immobile di attività implicante contatto quotidiano con i consumatori. La Suprema Corte ricorda – in materia locativa di immobili urbani – che i diritti di prelazione e riscatto, di cui agli artt. 38 e 39 l. n. 392/1978, spettano solamente se l’attività svolta avviene a stretto contratto con gli utenti. Tale verifica (come da Cass. n. 6818/01) costituisce presupposto processuale per l’ammissibilità delle corrispondenti azioni: nel caso in esame, tuttavia, il giudice di merito ha correttamente rilevato l’assenza nel contratto (e nelle circostanze di fatto) di simile rapporto.
Lettura conforme. Anche la prospettata violazione o falsa applicazione del canone interpretativo di cui all’art. 1362 c.c. è da escludere. La corte – già nel precedente della pronuncia n. 10615/10 – non ha mai affermato che la dizione «uso ufficio» valga a designare l’aspetto puramente interno e organizzativo di un’impresa, né che tale espressione importi una sorta di rinvio alle generali caratteristiche professionali dell’attività svolta dal conduttore, sì da ricavare da queste l’esistenza o meno del requisito.
La Corte di merito ha avuto il pregio di desumere il comune intento dei contraenti dal raffronto degli ultimi due contratti con quelli stipulati prima fra le stesse e aventi lo stesso oggetto, così pervenendo a una conclusione logica, congrua e insindacabile in sede di legittimità.