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I 75 anni di David Lynch, il guru dell’arte visiva

David Keith Lynch ha compiuto in questa settimana 75 anni. Nato a Missoula nel Montana il 20 gennaio 1946 è difficile da definire solo come un regista. Adolescenza girovaga, studi di arte a Philadelphia e come saggio di ne corso presenta il cortometraggio “Six Figures Getting Sick”. “Era soltanto uno dei miei quadri – ricorda -. C’era una gura che occupava il centro della tela. Mentre stavo osservando la gura nel quadro ho avvertito un leggero spostamento d’aria e ho colto un piccolo movimento. E ho desiderato che il quadro fosse realmente in grado di muoversi, almeno per un po’”.

Poi Los Angeles e l’arrivo di “Eraserhead”. Il risultato viene giudicato impossibile da distribuire ma, grazie all’aiuto di alcuni amici, Lynch riesce a proiettarlo in qualche sala come spettacolo di mezzanotte e, con la pellicola in valigia, sbarca in Europa al festival del fantastico di Avoriaz.

La proiezione del lm, un incubo surrealista a occhi aperti, girato in bianco e nero e dominato dalla terrificante incarnazione di un feto d’incerta origine (Lynch non rivelerà mai di cosa si tratti e lo seppellirà in gran segreto organizzando una veglia funebre con la troupe), si traduce in un autentico evento.

“Eraserhead” vince il premio, diventa un oggetto di culto, suscita mille interpretazioni e per dieci anni sarà proiettato a notte alta in moltissime sale d’essai americane. La svolta nella carriera da cineasta di David Lynch viene col secondo lm, “Elephant Man” (1980) per il quale, grazie all’impegno di amici e collaboratori con cui ha formato una sorta di “famiglia artistica” che durerà nel tempo, ottiene l’attenzione di Mel Brooks.

Il regista di “Frankenstein Junior”, dopo visto il primo lm dell’outsider di Philadelphia, accetta di produrlo: in cambio otterrà ben nove candidature all’Oscar per un lm in bianco e nero ambientato nella Londra vittoriana e consegnerà a Hollywood la nuova star del momento.

Realizza “Dune” di Frank Herbert che non sarà apprezzato né dal pubblico né dalla critica. In una cornice nostalgica da noir classico mette in “Velluto blu” (1986) tutte le sue ossessioni, i fantasmi dei paesini di montagna in cui è cresciuto, i suoni dell’America anni ’50, la fascinazione del male e delle misteriose dark ladies. Sceglie attori poco costosi come il dimenticato Dennis Hopper, la sua icona Isabella Rossellini.

Arriverà la seconda (di tre) nomination all’Oscar come miglior regista. Tre anni dopo il produttore Mark Frost che gli apre le porte della tv con la serie per l’ABC “I segreti di Twin Peaks”: gli americani non avevano mai visto nulla di simile e la serie diventerà il punto di riferimento di tutta la fiction di ne secolo, nonché l’ossessione del regista che tornerà ai suoi personaggi in “Fuoco cammina con me” (1992) e nel nuovo “Twin Peaks” del 2017. Nel frattempo vince la Palma d’oro a Cannes con “Cuore selvaggio”, realizzato i più misteriosi noir degli anni ’90 (“Strade perdute” e “Mulholland Drive”), un Leone d’oro a Venezia nel 2006 e l’Oscar alla carriera del 2019 mette un punto fermo al suo talento.

Fonte: il fogliettone

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