Alla fine di un trend positivo durato sette anni, dal 2012 al 2019, per la prima volta l’Italia perde una posizione nell’Indice di percezione della corruzione, classifica stilata annualmente da Transparency International. Secondo l’organizzazione, che monitora e classifica 180 paesi raccogliendo e misurando le opinioni di esperti e dirigenti di azienda, all’Italia è stato attribuito lo stesso punteggio del report dell’anno scorso (53 punti), che posiziona lo Stivale al 52esimo posto in classifica, in batteria con Grenada, Malta, Mauritius e Arabia saudita.
Mazzette, corruzione governativa, adeguatezza delle norme: sono decine i parametri utilizzati dall’organizzazione per condurre le sue ricerche e, infine, assegnare un punteggio a ogni paese che abbia fornito sufficienti informazioni. Ad ancorare l’Italia a risultati almeno discreti, negli ultimi anni, era stata la particolare attenzione data dai vari governi al tema della corruzione e al suo contrasto. In tal senso è intervenuta, nel 2016, la normativa sul diritto all’accesso civico generalizzato (il cosiddetto Freedom of information act, varato dal governo Renzi) che ha esteso la possibilità per i cittadini di richiedere alle pubbliche amministrazioni i documenti in loro possesso. A novembre del 2017 (col governo Gentiloni) ha trovato invece approvazione la normativa che, integrando quella a tutela dei lavoratori, ha introdotto particolari misure a protezione dei cittadini che segnalano casi di corruzione o malversazione nel settore pubblico e privato, i cosiddetti whistleblower. Sono inoltre intervenute diverse norme e revisioni in materia di finanziamento ai partiti politici, di cui la componente pubblica è stata eliminata nel 2013 (a Palazzo Chigi c’era Enrico Letta), e nuovi obblighi di trasparenza sono stati introdotti invece dalla legge del 2019 (governo Conte I), la cosiddetta spazza-corrotti, che equipara partiti e fondazioni a essi legate. Infine, evidenzia il capitolo italiano di Transparency International in una nota, la medesima legge ha anche inasprito le pene per alcuni reati di corruzione.
Come stanno le cose in Europa
Un percorso che si direbbe virtuoso dunque, che è andato a incidere in modo bipartisan su alcuni dei problemi che maggiormente contribuiscono a relegare l’Italia in una posizione ben al di sotto della media europea, di 64 punti su 100. Nel Vecchio continente si distinguono in particolare i paesi nordici – un leitmotiv a cui siamo abituati – con la Danimarca in prima posizione, seguita da Finlandia e Svezia a pari merito; poi Olanda, Germania e Lussemburgo (anch’esse con lo stesso punteggio). La cima della classifica oscilla tra gli 88 punti della Danimarca, prima a livello globale e gli 80 di Germania e Lussemburgo. La vetta azzurra della graduatoria è interrotta solo dalla presenza della Nuova Zelanda, che affianca la Danimarca al primo posto, e poi Singapore, Svizzera e Norvegia.
L’Italia e la trasparenza nell’era di Covid-19
Ma proprio il coronavirus ha già messo sotto sforzo e spesso mostrato le fragilità di una trasparenza non ancora pienamente conquistata, se non sulla carta. Lo testimonia in particolare la gestione che è stata finora fatta dei dati sanitari, a lungo negati, per i quali lo scorso novembre la comunità di giornalisti e attivisti ha lanciato una campagna apposita: #Datibenecomune. Dall’incipit della lettera, firmata da 45352 sostenitori e 162 organizzazioni, si legge: “La cittadinanza, stremata, chiede risposte mirate, meno gravose di ‘tutti in lockdown’. Elaborarle richiede dati pubblici, disaggregati, continuamente aggiornati, ben documentati e facilmente accessibili a ricercatori, decisori, media e cittadini. Il nuovo sistema di classificazione del territorio nazionale in tre aree di rischio rappresenta, in questo senso, un’opportunità, perché comporta un sofisticato sistema di monitoraggio nazionale e quindi genererà, si presume, molti dati di qualità”. Dati che avrebbero forse permesso di prevenire gli errori che hanno portato la regione Lombardia a una settimana almeno di zona rossa non necessaria, tra le altre cose; dati che i giornalisti hanno chiesto a tutti i livelli delle pubbliche amministrazioni, che in cambio hanno spesso scelto la via del silenzio-diniego.
Scelta coerente con la gestione delle richieste di accesso agli atti, il cui esercizio è stato arbitrariamente sospeso all’inizio della pandemia, dando a ciascuna pubblica amministrazione la discrezionalità necessaria per decidere se rispondere o meno: ça va sans dire, non rispondevano. Episodio esemplare nell’ultimo anno è stato quello che ha visto la contrapposizione tra la Fondazione Einaudi e il governo per l’ottenimento delle relazioni tecniche sulle quali si sarebbero basati i Dpcm del governo. Anche in questo caso – uno tra i tanti che si potrebbero citare – il diritto dei cittadini a richiedere atti e documenti in possesso della pubblica amministrazione si è scontrato con eccezioni e cavilli che hanno fatto del contenuto della norma una regola astratta e spesso inapplicabile.
Ma sarebbe ingiusto dire che la norma è stata messa in difficoltà dal coronavirus: come più volte denunciato da Wired, sono numerosi i casi nei quali, anche fuori dal lockdown e dalle disposizioni dei Dpcm, ministeri e comuni hanno scelto il silenzio anziché rispondere alle legittime richieste dei cittadini. Transparency ne sta tenendo traccia, sperando che nel prossimo report l’Italia torni a crescere.
Fonte: Wired.it